La settimana del petrolio comincia con una decisa impennata dovuta a fattori geopolitici, anche se in seguito questo impulso rialzista si è esaurito.
Le quotazioni di e erano arrivate a livelli che non si vedevano dal prima della pandemia, rispettivamente oltre 71 e 68 dollari al barile.
La scossa al mercato l’ha data l’attacco (sventato) dei ribelli houthi dello Yemen contro alcuni siti cruciali dell’industria petrolifera dell’Arabia Saudita. Tra gli obiettivi anche Ras Tanura, il più grande terminal petrolifero del mondo.
Sebbene l’attacco sia fallito e non abbia prodotto alcuna ripercussione sulla produzione saudita, l’impatto emotivo è stato forte. Del resto a settembre 2019 un attacco simile aveva costretto i sauditi a tagliare la produzione per circa un mese.
Questo spiega perché i prezzi del petrolio hanno subito una rapida impennata.
Il ha oltrepassato i 71 dollari, come non accadeva da gennaio 2020; il è salito a 68 dollari al barile, livello più alto da ottobre 2018.
Successivamente, le prese di profitto hanno ricucito lo strappo al rialzo. Del resto la soglia dei 70 dollari, oltre a essere un importante livello psicologico, è anche il valore da cui ha avuto inizio il ribasso durante la pandemia, e che già durante gli ultimi mesi aveva frenato il tentativo di rialzo del valore del greggio.
Sul mercato comunque c’è un robusto ottimismo, alimentato dal recente meeting dell’OPEC+. Settimana scorsa i produttori hanno deciso di lasciare inalterata l’offerta fino a fine aprile.