Il settore energetico continua a vivere una fase di surriscaldamento, che coinvolge anche il petrolio.
I prezzi del barile stanno correndo per il sesto giorno consecutivo, e questo spinge il Brent sui massimi da ottobre 2018, oltre la soglia degli 80 dollari. Intanto il West Texas Intermediate (Wti) sale oltre 76 dollari al barile.
A determinare questa corsa del prezzo sono diverse concause.
In primo luogo le aspettative di rialzo della domanda globale, che tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo, dovrebbe balzare ai livelli pre-pandemia aggirandosi attorno ai 100 milioni barili al giorno.
In secondo luogo, l’offerta che non riesce a tenere il passo. Le operazioni presso le piattaforme petrolifere americane negli Stati Uniti risentono ancora degli effetti dell’uragano IDA. A questo si aggiugne il taglio pesante degli investimenti nel settore, alla luce della transizione energetica che spinge a indirizzare altrove le risorse.
Ad aggiungere pressione c’è pure l’aumento dei prezzi del gas GNL e del carbone in Europa, nonché la carenza di benzina nel Regno Unito. Nel frattempo le scorte di greggio EIA si sono ridotte al minimo di 3 anni di 414 milioni di barili la scorsa settimana. Di recente Cina, Stati Uniti e India (i primi tre importatori mondiali di greggio) sono scesi in campo per contrastare i rincari, rilasciando scorte strategiche sul mercato. Secondo alcune stime queste mosse potrebbero immettere sul mercato oltre 40 milioni di barili fino a fine anno.
Molti analisti rimangono fortemente rialzisti su Brent e WTI, tanto che Goldman Sachs ha aumentato le sue previsioni di fine anno per il greggio Brent, dicendo che potrebbe superare facilmente i 90 dollari.
In prospettive, quello che sta succedendo sul mercato rende ancora più importante la riunione dell’OPEC+ delle prossime settimane, anche se difficilmente il cartello cambierà la sua strategia sui piani di produzione.